Nicoletta Verna scrittrice romagnola trapiantata a Firenze ci racconta il suo romanzo “I Giorni di Vetro”edito da Einaudi. Un romanzo affascinante che ci cala nella realtà degli anni del ventennio fascista vissuti al confine tra la Toscana e la Romagna, un tempo Toscana, al confine del passo del Muraglione. Un libro che narra di fatti realmente accaduti e che vede comparire personaggi dell’epoca realmente esistiti come in un grande spettacolo teatrale ci mostrano nell’immaginario quei tempi precari durissimi dei quali non bisogna mai dimenticarsi.
Signora Verna da cosa nasce il suo romanzo?
È una storia che volevo scrivere da moltissimi anni, per ricordare un periodo drammatico, quello fascista, e ripercorrerne la violenza. La violenza è stata fondamentale pietra di volta della costruzione identitaria fascista, soprattutto nella fase della sua affermazione, il biennio rosso, ed è stata poi legata al bagaglio di argomenti, parole e giustificazioni degli anni di guerra.
Quanto c’è di lei nel romanzo?
Nonostante la vicenda sia lontanissima dalla mia vita e dalla mia esperienza personale, c’è molto: la Romagna che è la mia terra, e dunque la mia lingua, le mie radici. Il tessuto narrativo è composto da moltissime storie di famiglia che mi sono state raccontate e tramandate. Le eroine incarano valori in cui credo profondamente, e che non sono legati a un periodo storico, ma eterni: la carità, la volontà di crescita, la resistenza.
E i luoghi le sono poi così lontani oggi?
I luoghi non sono lontani da Firenze: Castrocaro, dove si ambienta gran parte della vicenda e dove sono cresciuta, essendo il paese natio di mio padre, fu per secoli dominio fiorentino, al punto che fino al 1923 faceva parte della provincia di Firenze, così come tutti i paesi della valle del Montone. Fu poi Mussolini che, per allargare la provincia dove era nato, lo volle annettere alla provincia di Forlì. Ma tutt’ora quella parte di Romagna, cui si arriva dal passo del Muraglione, è detta Romagna toscana.
Alcuni dei personaggi sono realmente esistiti?
Sì, il romanzo trae a piene mani dalla storia di Castrocaro. La Fafina, la nonna della protagonista, era la mia bisnonna, indomita infermiera del medico di Castrocaro, il grande dottor Serri Pini, anche lui realmente esistito e amatissimo dai castrocaresi. Oppure Zambutèn, lo “stregone” che fa nascere Redenta.
In quale personaggio si rivede?
Forse proprio nella Fafina, perché è la figura femminile più moderna. Una donna forte, volitiva, che nel romanzo non si fa sottomettere dagli uomini e ha una visione lucida della guerra.
C’è un medico un pò stregone che appare nel romanzo, ci dica un pò, che figura era nella realtà a quei tempi? Se ne trovavano spesso?
Augusto Rotondi, detto Zambutèn, a Forlì era famosissimo e curò clienti anche molto illustri, come la moglie del chirurgo Sante Solieri e la stessa Rachele Guidi, moglie di Mussolini. Tale clientela gli faceva, per gratitudine, regali di lusso e lo proteggeva dalle conseguenze legali per l’esercizio abusivo della professione medica. Curava i poveri, invece, chiedendo onorari modesti o addirittura per niente, come racconto nel romanzo. Era una figura molto diffusa e non solo in Romagna: la medicina popolare ha una storia molto lunga e illustre in tutto il territorio italiano.
Tavolicci cosa le ricorda?
Tavolicci, il paese natio di Iris ovvero dell’altra protagonista del romanzo, è il teatro della più grande strage nazi-fascisa perpetrata in Romagna. Il 22 luglio 1944 i nazi-fascisti trucidarono 64 civili, di cui 19 bambini di età inferiore ai 10 anni. Solo nel 2004, aprendo i famosi “armadi della vergogna”, si saprà chi erano i mandanti. Ma la strage è restata a oggi impunita.
Non si sente un pò come la sorella che viene a Firenze per imparare alla scuola di infermiera?
Sicuramente! Nei romanzi, anche quelli che apparentemente non hanno nulla che fare con la vita di chi scrive, entrano inconsciamente tanti dettagli autobiografici dell’autore.
I racconti della campagna d’Africa si basano su fatti realmente accaduti?
Certo, e accuratamente documentati. Il colonialismo italiano in Etiopia è uno dei grandi rimossi della nostra storia: una narrazione incentrata sullo stereotipo degli “italiani brava gente” che è stata drammaticamente smentita dai fatti. In Africa siamo stati autori di stragi e delitti agghiaccianti.
Nicola Biagi