Mattagnanese-Bagnolo: quando il calcio si macchia di vergogna

ByFabio Ceseri

Gennaio 25, 2025
Mattias

Ci sono giornate che il calcio vorrebbe dimenticare, ma che invece restano scolpite nella memoria collettiva come un promemoria amaro. Quella di ieri, al termine del match tra Mattagnanese e Bagnolo, è stata una di quelle giornate. Un campo che avrebbe dovuto essere il teatro della pura competizione si è trasformato in una scena di disonore. Non per il risultato – un netto 0-7 che ha lasciato la squadra di casa senza appello – ma per ciò che è accaduto nella testa di qualcuno.

L’atmosfera tesa e il boato della vergogna
Il match era teso fin dall’inizio, come spesso accade quando una squadra, consapevole della propria inferiorità tecnica, si trova davanti un avversario che domina il campo con disarmante facilità. La Mattagnanese era già piegata dalle prime due reti, e la sensazione nell’aria era quella di una resa anticipata. Ma non c’era nulla che lasciasse presagire il veleno che si sarebbe sparso poco dopo.

Mattias Gningue, un ragazzo dal sorriso aperto e una grinta che trascende i confini del calcio, è stato il bersaglio di insulti che nulla avevano a che fare con la partita. Parole cariche d’odio, che risuonano come un’eco di un passato che ci ostiniamo a non seppellire. Gli insulti razzisti, scagliati contro di lui come frecce avvelenate, non hanno solo ferito il giocatore: hanno spezzato il senso stesso dello sport.

La dignità del silenzio e il grido non ascoltato
Mattias non ha fermato il gioco. Non si è avvicinato al suo allenatore, Mister Begliomini, per denunciare l’accaduto. Invece, ha scelto il silenzio. Non per debolezza, ma forse per una forma di resilienza che solo chi ha vissuto episodi simili può comprendere.

L’arbitro, informato dei fatti, sembra non aver colto il momento. E così, mentre il pallone continuava a rotolare, la partita si trascinava verso la fine con una tensione sempre più palpabile, pronta a esplodere come una pentola a pressione. E a fine partita, quando ormai non c’era più nulla da giocare, quella tensione ha trovato sfogo. Sono dovuti intervenire i carabinieri per calmare gli animi, mentre la delusione e la rabbia si intrecciavano in un vortice che non aveva nulla a che vedere con il calcio.

Un episodio che pesa come un macigno
Purtroppo, siamo nel 2025 e ancora accadono fatti del genere. Il calcio dovrebbe essere un linguaggio universale, una celebrazione delle differenze e un ponte tra culture. Ma ogni volta che un insulto razzista viene pronunciato, quel ponte si incrina, e lo sport perde una parte della sua anima.

La federazione è chiamata a intervenire, per accertarsi dei fatti e punire chi si è macchiato di questo gesto ignobile e riaffermare con forza che il calcio non è – e non sarà mai – il posto per l’odio. Come diceva Gianni Brera, “il calcio è la speranza del popolo di redimersi almeno per novanta minuti.” Ma quando quegli stessi novanta minuti vengono contaminati da episodi come questo, la speranza si trasforma in amarezza.

Cosa resta dopo il fischio finale?
Il risultato, 0-7, non conta più nulla. Resta invece il volto di Mattias, che con dignità ha scelto di raccontare ciò che ha subito. Resta una ferita che non si chiuderà in fretta, non solo per lui, ma per tutti coloro che vedono nello sport un rifugio, una casa, un luogo sicuro.

Da questo episodio bisogna ripartire, con regole più chiare e una condanna unanime. Il calcio non può permettersi di guardare altrove. E noi, spettatori di questa storia, non possiamo fare altro che indignarci, ma anche sperare. Perché, come diceva Nelson Mandela, “lo sport ha il potere di cambiare il mondo.” E forse, un giorno, cambierà anche queste menti piccole che ancora confondono il colore della pelle con il valore di una persona.

Su mugellosport pagina Fascebook, la testimonianza di Mattias

 

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